Sui Cie _ Chiudiamo i lager della democrazia


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Il testo che segue è una estrapolazione dell’incontro avvenuto mercoledì 23 marzo all’Università di Padova dal titolo “chiudiamo i lager della democrazia – presentazione del glossario dossier ABCie”. Non è nostra intenzione ripetere quanto già esposto nel dossier ABCie scaricabile dal blog noinonsiamocomplici.noblogs.org, le seguenti righe sono quindi anche il risultato di una successiva elaborazione e discussione collettiva.

L’incontro riguardava i CIE (centri d’identificazione e espulsione) ed è stato affrontato con una compagna di ”noi non siamo complici” che attraverso la storia di Joy ci ha descritto quella che è la realtà spesso taciuta, nascosta o insabbiata di questi lager.
Nel finale del breve documentario dal titolo “Notte e Nebbia” di Alain Resnais, che mostrava l’involuzione dei campi di concentramento in campi di sterminio nella Germania nazista, si dice: “chi veglia da questo strano osservatorio [le immagini nel contempo mostrano un campo di concentramento negli anni dopo la guerra] per avvertirci dell’arrivo di nuovi carnefici? Avranno un viso diverso dal nostro? […] Fingiamo di credere che tutto ciò [l’autore si riferisce al mondo concentrazionario] è di un solo tempo e di un solo Paese”. Significativa è questa ultima parte e estremamente attuale in quanto, in molti regioni d’Italia, vi sono dei CIE, ovvero delle strutture che richiudono degli immigrati colpevoli di non avere un documento in regola, un pezzo di carta insomma. Il solo fatto di esistere ed essere contemporaneamente presente sul territorio italiano, per la nostra legislazione, comporta un reato. Ogni essere umano rinchiuso ha una sua storia. Spesso provengono da Paesi molto lontani lasciando delle realtà di miseria e guerra, condizioni che spesso sono provocate da multinazionali e governi occidentali (pensiamo all’ENI in Nigeria). Dopo viaggi estenuanti costellati di numerose violenze (come nei campi di concentramento libici, in parte finanziati dall’Italia) e talvolta anche dalla morte, giungono nelle nostre democrazie dove trovano un CIE ad aspettarli per poi deportarli verso i loro Paesi di origine. I CIE non sono strutture isolate ma compenetrano con la società esterna: enti gestori ne traggono profitto dalla loro attività, aziende forniscono materiale, altre vincono gare d’appalto per costruirne di nuovi (è il caso del CIE di Gradisca d’Isonzo reso inagibile dalle proteste degli immigrati). Di fronte al guadagno è difficile tirarsi indietro, secondo una logica grettamente materiale.
L’informazione è un primo passo indispensabile, ancora di più per l’epoca in cui viviamo in cui gli eufemismi utilizzati, i CIE vengono definiti “centri di accoglienza”, servono per evitare che la gente sappia realmente cosa rappresentano quei posti. La violenza fatta alle parole rispecchia la violenza esercitata sugli uomini diceva Primo Levi. Sappiamo però che l’informazione non basta per risvegliare quelle coscienze immuni a qualsiasi richiamo umano, ma è comunque fondamentale. Forse l’obiettivo di oggi è proprio quello di non tenere la bocca chiusa per sapere cosa succede realmente dentro i CIE e per abbattere quel muro che, innanzitutto, non è fisico ma mentale e separa essere umani da altri esseri umani e che ci fa pensare che ogni straniero è un nemico. Non ci sembra superfluo dire che i veri stranieri sono gli sfruttatori e anche coloro che detengono le chiavi dei CIE.
Istituiti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano con il nome di Centri di Permanenza Temporanea (CPT) avevano l’obiettivo di rinchiudere persone che non avessero un documento d’identità che incorrevano così in un illecito amministrativo. In questo periodo la detenzione era di venti giorni, che poi furono aumentati a tre mesi per arrivare al Pacchetto sicurezza del 2008 che introdusse il reato di clandestinità e aumentò la detenzione a sei mesi. Cambiò anche il nome da CPT a CIE. E’ inquietante l’analogia tra i campi nazisti e quelli odierni italiani: in entrambi si trattava di detenzione amministrativa. Certo quando si parla di lager si intende nella sua accezione di campi di concentramento e non di sterminio. Lo sterminio degli immigrati, ai giorni nostri, non avviene nelle camere a gas ma nei deserti, nei naufragi che avvengono in mare, lungo le frontiere per poter approdare nella Fortezza Europa. Dal 1988 ad oggi sono 15.760 i morti documentati (dato aggiornato al 5 marzo 2011). Ci sarebbero poi da considerare le vittime che ci sono in Italia a causa di suicidi, tentate fughe dalle autorità e quindi per la paura di essere beccati, che complessivamente sono un numero ridotto ma che sono esemplificative del mondo in cui viviamo, in cui spesso a regnare è la paura. Anche le lotte all’interno dei CIE ci indicano di quanto sia poco piacevole essere rinchiusi tra mura. In particolare si è visto una intensificazione delle lotte, un aumento delle evasioni e quindi in generale una intolleranza verso una condizione esistenziale disumana. C’è da considerare che dal punto di vista legale non si può parlare di evasione perché, la loro, è una detenzione amministrativa. Perciò durante le rivolte i “ribelli” vengono denunciati per resistenza o lesioni a pubblico ufficiale o per oltraggio. Con queste accuse possono essere tradotti in carcere e una volta “liberati” tornare nuovamente nei CIE.

Ma qual è la vera funzione di un CIE? Un importante ruolo lo svolge come serbatoio di manodopera da sfruttare. Nel momento in cui il mercato del lavoro è saturo di lavoratori allora gli “stranieri” non servono più e possono tranquillamente andare a finanziare un altro tipo di business, quello dei CIE, prima di essere rispediti a casa. In quello di Modena, ad esempio, l’ente gestore riceve dallo Stato per ogni immigrato una quota di euro 75 al giorno. Il CIE può inoltre diventare la minaccia, da parte dei padroni, per qualsiasi immigrato che lavora in Italia e che non possiede i documenti in regola: “o lavori alle mie condizioni o ti denuncio alla polizia”.

Le politiche securitarie, grazie anche ai loro megafoni ufficiali rappresentati dai media, trovano un terreno fertile nella nostra società sempre più razzista. La creazione di strutture per immigrati irregolari separate da quelle per gli italiani o per i “regolari”, conseguenza di un diritto separato per categorie, ha anche la finalità di tenere teoricamente separate le classi subalterne ricreando la dinamica della guerra tra poveri. Il problema diventa così l’immigrato che “ti ruba il lavoro” e non lo sfruttamento del padrone che ti svuota di valore la tua vita o fa licenziamenti in massa.

I 13 CIE presenti in Italia sono stati creati per una situazione di “normale” immigrazione. Con le rivolte avvenute negli ultimi mesi nel nord Africa sono saltati molti accordi tra l’Europa e i paesi al di là del Mediterraneo per trattenere la migrazione e ciò a portato un aumento degli arrivi in Italia. Il ministero degli interni sta provvedendo a disporne altri 13. Speriamo che l’organizzazione, l’unità e la determinazione che i popoli insorti del nord Africa hanno mostrato fino ad ora la mettano in pratica anche qui e che siano esempio anche per noi. La loro lotta contro i padroni dei loro paesi è anche la lotta contro i nostri padroni e viceversa.

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